Una lettera scarlatta mai arrivata in Rai

di Michele Mezza

pubblicato il 4 marzo 2019

Esattamente come nella Lettera Scarlatta, il classico della letteratura americana scritto da Nathaniel Hawthorne nel 1850, quella inviata dall’attuale A.D. della Rai Fabrizio Salini al Corriere è un testo tutto intriso di senso di colpa e ambizione di riscatto. In questo si tratta di un perfetta replica di analoghe lettere scritte nei decenni passati, in modo assolutamente analogo.

Penso a quella scritta da Gianni Locatelli, direttore generale e dal presidente Claudio Demattè, nel 1993, per spiegare il primo tentativo serio di ristrutturazione dell’architettura del servizio pubblico, oppure quella che qualche anno dopo inviò nel 1999, il direttore generale del tempo Pierluigi Celli, o ancora quella di Claudio Cappon o, successivamente , di Luigi Gubitosi o Gianni Campo dall’Orto.

Ogni nome, ogni lettera, un complesso di colpa, la scrivo in quanto lottizzato, e un’ansia di riscatto, voglio normalizzare l’azienda. L’epilogo assolutamente identico in tutti i casi: la lettera viene respinta al mittente. Identica anche la struttura logica e perfino la forma semantica. Salini, come i suoi predecessori, tutti figli di stagioni, equilibri, partiti e interessi diversi fra loro ma tutti assolutamente accomunati da un’ibrida fisionomia di manager fiduciario di clan politico, prova a proteggere la sua proposta di riforma dal fuoco amico, fingendo di difenderla dalle critiche degli oppositori.

La riforma , anch’essa è più o meno la stessa zuppa: unificare quello che la politica ha diviso. Si tratta di dare un senso produttivo e competitivo a quella comunità terapeutica a cui si è oggi ridotto il disegno delle canne d’organo, tutte testate e reti equivalenti e parallele che si distinguono solo per il legame al clan politico che ne ha sponsorizzato il direttore ,che risale alla mitica riforma del 1976 e che oggi sopravvive perfino ai partiti e ai poteri che si erano identificati con la triplice strutture di reti e testate.
Una struttura assolutamente delirante, che moltiplica i costi e riduce la potenza produttiva sia nell’informazione che nelle reti, triplicando ogni funzione e attribuzione.

Basta pensare che i circa 1800 giornalisti in realtà valgono per non più di un terzo, infatti ogni notizia viene processata e lavorata lungo almeno 9 linee produttive parallele. ogni notizia prima di andare in onda in rai viene, a spanne, vista e lavorata da almeno 31 passaggi, sommando tutte le testate che in parallela la trattano. A Sky sono solo 4, a Mediaset 11.

Quanto costa in rai annunciare un nubifragio eccezionale a Viterbo? Per capire come questo sistema, detto appunto a canne d’organo, sia inefficiente basta chiedersi come mai un’azienda che dispone di 1800 giornalisti debba dipendere per le notizie da una, come l’ANSA, che ne conta non più di 600.
Questo sistema mediorientale è la conseguenza di quella bizantina riforma di metà degli anni 70 che spezzettò il latifondo democristiano, attribuendo appezzamenti aziendali ai contendenti del tempo, gli alleati-competitori socialisti, e i nuovi challengers del PCI. Ognuno ebbe il suo, o meglio ognuno si vide attribuire un bottino di reti e testate equivalente al peso politico, non elettorale: le due forze di governo maggioritarie (Dc e PSI) si divisero il meglio, l’opposizione comunista ebbe lo spicchio residuale. Talmente l’operazione fu condotta in maniera integrale, che si procedette proprio a creare 3 sub aziende diverse: Rai1 e TG1, Rai2 e TG2, rai3 e Tg3. Lo stesso fu fatto, come sempre in miniatura, alla radio a numeri invertit: Radio1 e Gr1 ai socialisti con nel marsupio il PCI, radio2 e GR2 alla Dc, radio 3 e Gr3 ai laici minori.

Al confronto il manuale Cencelli era il soviet di San Pietroburgo.
Non si sgarrava nemmeno per le nomine dell’infermeria. Al tempo, siamo nella stagione dell’unità nazionale di una fragile democrazia senza alternanza, il tutto venne giustificato come una convalescenza iniziale di una sovranità limitata che cominciava a fare prove di alternativa. Dal monopolio si passava ad un pluralismo verticale: ognuno era padrone a casa sua, e di conseguenza, ognuno esasperava la propria identità. In quegli anni, siamo nel pieno della stagione post sessantottina, il risveglio della società civile riuscì ad usare i varchi che quel pluralismo verticale offriva. La Rai divenne terminale e amplificatore di fenomeni sociali anche di una certa radicalità: nel 1978, in pieno trauma del delitto Moro, e con alle porte il referendum sull’aborto, le diverse reti mostrarono segni di una certa irrequietezza culturale mandando in onda programmi come Processo per Stupro, o varietà con la trasgressiva Cicciolina (siamo nell’Italia del 1978). Quel pluralismo divenne perfetto, alla fine degli anni 80, quando la sinistra DC, in contrapposizione all’offensiva filosocialista di Berlusconi con le sue tre emittenti private aprì ai comunisti, imbarcando una leva di quadri e giornalisti di primordine. Ma anche in quel caso ognuno chiuso nel suo recinto. Via via che la storia macinava i partiti, le scuderie a Viale Mazzini si avvizzivano ed arroccavano nei propri possedimenti. Mani Pulite diede un primo scossone, poi, l’alternanza fra Prodi e Berlusconi fece impazzire il pendolo della RAI, ma bene o male le tre chiese resistevano: Rai 1 e TG1 rimanevano Dc anche quando le dirigevano comunisti, Rai 2 e TG2 si richiamavano ad un partito socialista che non c’era più, e tutto quello che era 3, tv e radio, diventava prolungamento del post PCI.

Siamo alla stagione più brulla del servizio pubblico, quella in cui si cominciano a coltivare ambizioni. Si susseguono tentativi -con i professori nel 1993, la stagione della crisi dei partiti dopo manipulite, si riuscì al massimo ad unificare i GR, creando una grande redazione, grazie ad un grande direttore, quale fu Livio Zanetti, con l’avallo del consigliere di amministrazione di riferimento, il professor Tullio Gregory, un grande intellettuale scomparso proprio in questi giorni.
Se Garzia Marquez scrive, nel suo impareggiabile inizio di Cent’anni di Solitudine, che il colonnello Buendia per 32 volte aveva armato una campagna di opposizione, rimanendo per altrettante volte sconfitto, fino a finire dinanzi al plotone d’esecuzione a ricordare la prima volta che vide il ghiaccio, così in Rai per decine di volte si provò a smantellare l’organo. Con i Gr, con i coordinamenti di rete, con le divisioni, con il primo canale all news nel 1999, con la differenza fra generi. Ma alla fine fu solo ghiaccio e plotone di esecuzione.
La penultima volta toccò al cosiddetto Piano Verdelli, che riprendeva una velleitaria e confusa ambizione del precedente direttore generale Gubitosi, per riunificare le linee di produzione delle news, creando un centro di raccolta e selezione delle informazioni a tutto campo, H24, per poi differenziarne la diffusione e la trasmissione.

Niente da fare. La solita istintiva alleanza fra i consiglieri di amministrazione, di qualsiasi partito siano, da qualsiasi estrazione culturale o professionale vengano, sempre i consiglieri di amministrazione sono contro la riunificazione, perché ovviamente, gli svuoterebbe l’anticamera. Se ogni brandello di azienda dipende da una filiera politica-relazionale, al cui vertice c’è un consigliere tutore, è evidente che smantellare le canne d’organo dando all’azienda un motore unitario toglierebbe ogni delega ai consiglieri. I quali, a secondo se in quel momento sono di governo o di opposizione si trincerano dietro le stesse due accuse. Se di governo, rivendicano la sacra missione del pluralismo e della sfaccetta rappresentazione delle componenti sociali –dal Tg1 all’infermeria- se di opposizione accusano i riformatori di voler fare man bassa di tutto il potere per consegnarlo ai propri padroni politici.
Il copione è sempre lo stesso, e si ripete con meccanica e automatica identità.
Qualora, per distrazioni o richiami più autorevoli, i consiglieri mostrassero cedimenti al disegno semplificatore, ed è perfino capitato, con Celli nel 99 ad esempio, arriva subito l’ostruzione del cosiddetto partito rai, quella comunità istintiva di dirigenti e giornalisti che vivono proprio nelle pieghe del composito tessuto del pluralismo corporativo. In particolare sono i vice che compongono la falange di resistenza: i vicedirettori, i vicecaporedattori. E’ quella popolazione che vive sulla scia del direttore e, in base agli automatismi lottizzatori si appresta a compiere un nuovo salto in avanti.

Da qualche anno è poi subentrata un’altra discriminante: il digitale.
Infatti la struttura a reti e testate parallele e autonome se era ridondante e costosa con l’analogico, diventa assolutamente insostenibile al tempo del digitale.
Infatti come è possibile concepire una struttura di produzione, selezione, raccolta e successiva pubblicazione in rete se non con una produzione unitaria, che nelle 24 ore sia in grado di presidiare e generare flussi di contenuti altamente differenziati e personalizzabili per ogni singolo utente? Infatti la Rai da almeno 20 anni vive l’insolubile problema di essere l’azienda editoriale più poderosa e complessa tecnologicamente del paese con il sito web peggiore d’europa.
Ma oggi, con l’acquisizione che la rete è una fabbrica e non una vetrina, cioè il web è il luogo in cui si producono e selezionano i linguaggi e non solo si mostrano al pubblico, la potenza di una struttura in grado di giostrare su tutte le piattaforme, sulla base di una profilazione dei suoi utenti e di una proporzionale offerta differenziata prevede inevitabilmente una news room multimediale unitaria. Una struttura del genere comporta, per non dover replicare funzioni e costi, di ridisegnare le redazioni di emissione a partire da un unico centro di selezione e formattazione della notizia.
E’ l’equivalente dell’unificazione dell’impero di mezzo, nel 221 avanti cristo in Cina , ad opera della dinastia Qin, quando i signori della Guerra sono stati sconfitti e il loro potere fu sottoposto all’autorità centrale di Pechino. A Saxa Rubra la dinastia Qin non è mai riuscita ad arrivare, e i signori della guerra dominano ancora incontrastati, come anche il nuovo amministratore delegato Salini sta costatando. La sua lettera inviata a nuora perché suocera intenda, sembra quasi voler rimasticare la polemica della TAV: è inevitabile procedere con i lavori di ristrutturazione, pena la condanna a morte della Rai. Ma già si sollevano le giaculatorie del consiglio: i governativi difendono il sacro Graal del pluralismo, anche a costo di avere meno libertà, gli oppositori temono l’asso pigliatutto del governo, di fatto già realizzato, per altro.
In mezzo il sistema paese vede deperire una delle poche aziende di convergenza multimediale in grado di negoziare la transizione al digitale. Una delle poche imprese che potrebbero aiutare il paese a dire la propria nel passaggio in atto verso un nuovo modo di elaborare e condividere il senso comune. Pensiamo a come il sistema televisivo stia passando dal broadcasting -da uno a tanti- al browsing, ossia alla trasmissione in streaming di infinite offerte che vengono condivise individualmente e separatamente da milioni di persone. Pensiamo a come si sta riadattando il mondo dell’informazione, con un calo vertiginoso di protagonismo professionale e un incremento delle forme di conversazione punto a punto dei cittadini. Pensiamo infine a come l’autonomia e la sovranità di un paese sia oggi minacciata dalla possibilità di intromettersi nella testa e sui video di milioni di utenti con messaggi e suggestioni gestiti da bot automatici. Insomma siamo ad un vero cambio di paradigma in cui la potenza e l’efficienza del sistema multimediale diventa una questione di sicurezza e competitività nazionale. E come diceva proprio uno dei personaggi di garcia Marquez, “noi siamo ancora qui a guardare come degli asini cosa accade al di là del fiume”.